Appunti biografici

Le note biografiche di Amedeo Modigliani inviate dalla famiglia dell'artista a Paul Alexandre

Margherita Modigliani e Eugenia Garsin

Nel 1924 Paul Alexandre decise di portare avanti un progetto che aveva in mente e nel cuore da sempre, quello cioè di comporre un'opera dedicata al suo grande amico Modigliani. Il suo primo pensiero fu quindi quello di contattare la famiglia dell'artista, per avere il consenso per la pubblicazione del volume cui stava lavorando, per ricevere delle informazioni riguardo alla sua infanzia nella sua città natale di cui sapeva ben poco, e per avere accesso alle opere di famiglia da inserirvi. Il primo ad essere contattato dal dott. Alexandre tramite una lettera datata 14 agosto 1924 fu Emanuele Modigliani, fratello di Amedeo, che a sua volta lo mise in contatto con sua madre ritenuta da lui più idonea per parlare del fratello scomparso: nacque così uno scambio di corrispondenze tra Paul Alexandre ed Eugenia Garsin che con l'aiuto dell'altra sua figlia, Margherita, iniziò a scrivere il profilo biografico di Amedeo.


«Amedeo Clemente Modigliani nacque a Livorno il 12 luglio 1884. Era il quarto figlio di Flaminio Modigliani e di Eugenia Garsin. Le due famiglie da cui discendeva presentavano tratti distintivi piuttosto ben caratterizzati, essendo entrambe italiane ed ebree. I Modigliani, venuti da Roma a Livorno una cinquantina d'anni prima, erano quasi tutti alti, forti, perfettamente equilibrati, godevano di ottima salute, erano indenni da qualsiasi tara ereditaria, di carattere apatico, portati piuttosto a godere la vita che a impegnare la loro intelligenza, peraltro piuttosto vivace. Tutti i nonni, i prozii e gli zii sono vissuti a lungo, e il padre Flaminio è ancora, a ottantaquattro anni, nel pieno della salute e dell'attività. I Garsin, originari di Livorno ma emigrati a Marsiglia da quasi cent'anni, presentano tratti fisici e intellettuali diversissimi. Di statura meno alta e meno robusti, quasi tutti bruni, dalla fisionomia molto vivace, espressiva, mutevole. Ci furono tra gli ascendenti alcuni casi di tubercolosi (e di lunga resistenza alla malattia), di malattie al fegato e di disordini psichici. La madre di Amedeo ne ha ereditato soltanto la malattia al fegato. Ma la caratteristica predominante nei Garsin è l'amore quasi smodato per lo studio e la lettura. Pur senza aver prodotto alcun letterato, la famiglia ha fornito un'alta percentuale di spiriti colti, d'intelligenze superiori. Al momento della nascita di Amedeo le due famiglie si trovarono entrambe e quasi contemporaneamente rovinate da catastrofi economiche, che peraltro lasciarono intatta l'onorabilità di entrambe le ditte. I Garsin avevano trovato rifugio presso i Modigliani, e le due famiglie riunite facevano il loro apprendistato nelle ristrettezze, iniziando una vita di lavoro per la quale non avevano avuto nessuna preparazione. Quando Amedeo venne al mondo, il 12 luglio 1884, aveva già due fratelli e una sorella molto più grandi di lui. Emanuele, di dodici anni, frequentava i suoi primi anni di scuola con il successo che l'avrebbe accompagnato in tutta la sua carriera. Margherita aveva dieci anni e Umberto sei. C'erano ancora due zie e uno zio Garsin, e anche colui che ebbe su Amedeo il più grande influsso: il nonno Isaac Garsin. Era un uomo d'intelligenza e dirittura morale superiori e di rigidi principi, ma allora era un uomo distrutto da tutta una serie di sventure. Aveva avuto una lunga vita felice: a capo di una prospera azienda commerciale, solidamente impiantata a Marsiglia. Poi, d'improvviso, la morte della moglie e certe complicazioni commerciali l'avevano bruscamente destato da quello che era stato un lungo sogno felice. Amedeo trovò in lui un amico illuminato, niente affatto sentimentale o espansivo che, attraverso conversazioni qualche volta troppo elevate, spesso rallegrate da una sfumatura d'umorismo, lo sospinse verso l'intellettualismo. Morì che Dedo non aveva ancora dieci anni. Peraltro l'ambiente familiare era tutto impregnato di questa passione per lo studio, che rispondeva a tendenze ereditarie, ma che allora era alimentato dal desiderio di tutti, grandi e piccini, di far fronte alla malasorte e di gettare le basi di un avvenire migliore. È necessario insistere su questo problema delle finanze familiari poiché essa formò il carattere di Amedeo. Si trattava di ristrettezze, tanto più sentite in quanto recentissime, ma non fu mai umiliazione. In una cittadina, ancora divisa in piccole consorterie, chi ha sempre goduto di rispetto non perde il suo rango con la perdita del denaro. I Garsin-Modigliani, pur senza cercare di mascherare la povertà, riuscirono sempre a conservare la loro dignità e, quando tutte le donne della casa - la madre, le due zie e Margherita (che aveva appena terminati gli studi) - si diedero coraggiosamente all'insegnamento, la gente comprese e approvò. Amedeo - in famiglia lo chiamavano unicamente con il vezzeggiativo "Dedo" - visse i suoi primi anni in un'atmosfera di lavoro e di abnegazione, priva di allegria, ma che non gli inflisse né privazioni materiali né ferite all'amor proprio infantile. La madre, attaccatissima all'ultimo nato, che intuiva di salute delicata, non disponeva né del tempo né del denaro per fare di lui un vero bambino viziato; ma anche così non riusciva né voleva mai contrariarlo; il bambino, ubbidiente, giudizioso e d'intelligenza precoce, non fu mandato alle scuole elementari, ma fu tenuto in casa fin verso i dieci anni. In un appartamento un po' piccolo per quella famiglia numerosa, senza la compagnia di bambini della sua età e poco viziato in fatto di balocchi, a Dedo non mancarono mai i libri, di cui la casa rigurgitava. Né gli mancò mai ciò che, in mancanza di un termine più esatto, si potrebbe chiamare "la lezione delle cose", grazie alle conversazioni degli adulti attorno a lui, ché tutti, più o meno, sapevano e volevano rispondere alle sue domande. Egli assorbì dunque abitudini e modi seri e gentili, e anche una capacità di concentrazione della volontà e del pensiero che in seguito si affermeranno apertamente. A quel tempo (prima del suo ingresso al ginnasio a dieci anni), passava ore a sfogliare libri, soprattutto libri illustrati, a scarabocchiare a matita, o con dei colori, tutto ciò che gli capitava sotto mano. Un bel libro, Les animaux peints par eux-mêmes, illustrato da G. Doré, fu per molto tempo il suo passatempo preferito. In seguito lo fu una Histoire de France di V. Duruy. Non avendo la bambinaia, usciva qualche volta con la mamma quando questa aveva un po' di tempo disponibile tra una lezione e un rammendo da fare, ma molto più spesso con il nonno Isaac Garsin. Certamente le lunghe chiacchierate con un uomo tanto nutrito di letture, amabile ed enciclopedico conversatore, dovettero lasciare un seme in quella giovane intelligenza. Il nonno, che vantava tra i suoi antenati il filosofo Spinoza (informazione errata), aveva una spiccata tendenza alla speculazione filosofica. Allora era esacerbato dalla recente perdita di una fortuna, dalla necessità di finire nell'ozio una vita fino ad allora piena di movimento. Le più belle ore della sua giornata erano quelle che trascorreva in riva al mare con il nipotino, sia da soli, sia a sorvegliare i suoi giochi con qualche amichetto. In famiglia piaceva anche far recitare al bambino dei versi ed egli, anche se non capiva bene quel che diceva, li sapeva declamare con grazia. Qualche tempo dopo la famiglia riuscì a trasferirsi in una casa con giardino, e vi fu installata una scuola francese frequentata soprattutto da bambine. Dedo vi trascorreva qualche ora, il che gli procurò alcune amicizie infantili e una certa abitudine a esprimersi in francese. Poi, verso gli undici anni, incominciò a frequentare i corsi al ginnasio. Erano studi classici, che seguì senza entusiasmo, ma abbastanza regolarmente fino al 1898, anno connotato dalla fine del ginnasio e dal passaggio al liceo. Il 1898 segnò comunque il periodo peggiore nella storia della famiglia. Allora il magro bilancio familiare era stato a poco a poco rimesso in sesto. Nonno Garsin era morto. Uno dei suoi figli, Amédée Garsin, un grande cuore e una grande intelligenza in un corpo malaticcio, sebbene ancora giovanissimo, aveva fondato a Marsiglia una ditta commerciale che gli consentiva di aiutare la nidiata Modigliani-Garsin. Emanuele, dopo aver terminati gli studi all'università di Pisa ed essersi conquistato il titolo di avvocato, aveva anche pagato il suo debito verso lo Stato prestando servizio militare per un anno nel genio. Umberto, bruciando le tappe a forza d'impegno, aveva conseguito il diploma d'ingegneria all'Università di Liegi. Margherita contribuiva al bilancio familiare essendosi sottoposta anche lei al giogo dell'insegnamento, quando due terribili disastri piombarono quasi contemporaneamente sulla famiglia: Emanuele, compromesso nei moti socialisti, fu condannato dal tribunale militare a sei mesi di carcere - che furono arbitrariamente prolungati - e Dedo cadde gravemente ammalato. Aveva già sofferto di pleuriti che l'avevano lasciato sempre più delicato. Ma ora si trattò di un violento attacco di febbri tifoidee, che lo tennero tra la vita e la morte per settimane e lo fecero delirare per più di un mese.

Fu durante il delirio che Dedo espresse il desiderio di studiare pittura. Mai fino ad allora aveva parlato di quello che probabilmente considerava un sogno irrealizzabile. Nell'atmosfera di lavoro e di studio di un ambiente eminentemente borghese, malgrado le tendenze intellettuali, il bambino non poteva sperare che fosse possibile essere accontentato. Il carattere fortemente volitivo, già formato a quattordici anni, la disciplina che s'impone nelle famiglie numerose e, come la sua, composte di persone diverse, ognuna delle quali con la sua battaglia da combattere e la conseguente scarsa comprensione per tutti gli altri, una tendenza naturale e acquisita a nascondere i propri sentimenti più intimi, la delicatezza stessa della sua natura e anche quella fierezza che era in lui, fino a quel momento gli avevano fatto tenere la bocca chiusa. Egli parlò durante il lungo delirio della febbre. Parlò continuamente di quadri intravvisti in riproduzione, ché a Livorno non ce n'era nessuno. Uno dei suoi incubi: perdeva il treno che doveva condurlo a Firenze a vedere gli Uffizi. Parlò del pittore Segantini che allora aveva grande successo (uno dei libri salvati da Piero Carboni insieme alle tre teste, è un catalogo espositivo del 1898 relativo ad una esposizione torinese dove vennero presentate per la prima volta una selezione di opere di Giovanni Segantini - testo digitalizzato dal Museo di Torino), e tutto con tale insistenza che sua madre, che lo curava, decise di accontentarlo a ogni costo. Un giorno in cui era ancora in preda alla febbre e al delirio, stringendogli ambo le mani, essa cercò di attirare la sua attenzione e gli fece una solenne promessa: «Quando sarai guarito ti darò un insegnante di disegno». Il malato capì confusamente, e da quel momento incominciò a migliorare. La sua prima uscita da convalescente coincise con l'uscita dal carcere di Emanuele (dicembre 1898). Dopo aver ottenuto la licenza ginnasiale, Dedo frequentò lo studio di un pittore livornese, Micheli. Fu la sua unica scuola. Se scuola la si può chiamare. Micheli non era e non pretendeva d'essere un maestro. Aveva un certo talento, una certa bonomia e, in mancanza di concorrenti, riuniva attorno a sé un gruppetto di giovanissimi allievi, di cui Dedo divenne ben presto il centro. Molti di loro oggi sono abbastanza stimati: Lloyd, Ghiglia, Romiti, ecc. Fu, per due anni, una frequentazione di ragazzi allevati con minori attenzioni di lui.

Una pagina degli appunti biografici inviati da Eugenia Garsin a Paul Alexandre

Furono scorribande per la campagna, ma anche chiacchierate tra compagni, ore a bighellonare negli studi, troppe sigarette e l'iniziazione precoce da parte di cameriere compiacenti. Fu anche il distacco dai fratelli, che non comprendevano affatto ciò che essi percepivano come il lasciarsi andare di un ozioso. In quel paio d'anni due furono i cattivi influssi subiti. Uno di natura fisica: un pittore morto giovane di tubercolosi aveva lasciato il suo studio alla combriccola degli allievi di Micheli. È probabile che Amedeo contraesse in quello studio l'infezione che allora contagiò anche altri due membri della banda. Ancor più pernicioso fu l'influsso di un compagno più vecchio di lui, e non senza talento, che, privo di ogni senso morale, iniziò il fragile adolescente a un romanzo piuttosto volgare sotto le apparenze sentimentali. L'avrebbe anche iniziato a pratiche spiritiche. Amedeo, sebbene ancora tanto giovane, reagì contro queste meschine bassezze e ruppe presto i rapporti con quel compagno. Purtroppo il suo organismo reagì meno bene ai germi della malattia. Nel settembre 1900 fu colto da una violenta emorragia seguita da febbre, e i medici pronunciarono una diagnosi senza speranza. Alla madre fu consigliato di rassegnarsi e di starsene con le mani in mano. Essa volle lottare. E perciò si rivolse subito al fratello Amédée Garsin, i cui affari incominciavano ad andare a gonfie vele (egli fondava allora a Marsiglia quella che sarebbe poi diventata la Compagnie pour l'exploitation de Madagascar). Amédée rispose alla richiesta d'aiuto: "Considera tuo figlio come se fosse mio. M'incarico di tutte le spese che giudicherai necessarie". Allora, nonostante il consiglio dei medici, Amedeo fu portato al sud. Sua madre era convinta che il vento continuo di Livorno e di tutto il suo litorale fosse dannoso per dei polmoni malati; così volle tenerlo sotto la sua ala per sorvegliarne il comportamento fin nei minimi particolari, cosa che non fu facile. Da Napoli a Torre del Greco, nel grande albergo Santa Teresa quasi vuoto in quella stagione, il malato trascorse due mesi respirando aria di mare, lontano da ogni influsso dannoso. Ebbe il suo studio e tutte le possibilità che aveva sempre desiderato. Un vecchio mendicante posò spessissimo per lui come modello. Alcune visite ai musei di Napoli furono un'iniziazione di cui un profano non saprebbe certamente apprezzare appieno l'importanza. Certamente una testa di quel mendicante che dipinse allora per sua madre aveva tutte le caratteristiche dei dipinti, allora ammiratissimi, di Morelli. In seguito egli distrusse il quadro con le sue stesse mani, avendo superato quella fase della sua evoluzione artistica. Al museo di Napoli trascorse lunghe ore a contemplare i bronzi antichi: un Sileno, un fanciullo che alza il piede per togliere una spina, ma soprattutto un Hermes - o forse un'Afrodite dalle molte mammelle - attirarono più a lungo il suo sguardo. Naturalmente non contemplò meno a lungo le gallerie di quadri. Si trattenne per molte ore ad ammirare un dipinto incompiuto di Leonardo da Vinci. Scopriva probabilmente qualche segreto della tecnica del grande maestro scrutando i fondi appena preparati e le figure appena abbozzate. Già allora la sua aria un po' sdegnosa, le maniere un po' fredde, la facilità di parlare con intelligenza di qualsiasi cosa, fecero sì che i rari ospiti dell'hotel lo considerassero un adulto La barba corta e crespa aggiungeva fascino alla sua fisionomia tanto espressiva. Un inglese di passaggio un giorno gli disse: "Lei deve dipingere con intuito, immaginazione e concentrazione". "È tutto un programma - rispose Dedo - e mi ci atterrò". Dopo Torre del Greco, verso il mese di mano, si trasferì a Capri, sempre accompagnato dalla madre chioccia che non si allontanava di un passo e divideva con lui persino la stanza. L'aria più vivificante, le conoscenze più numerose contribuirono a restituire a Dedo un po' di salute. La febbre se ne andò, le notti furono tranquille. Da Capri "Maman" volle partire in tutta fretta, impressionata dalla vicinanza di quell'ambiente di tedeschi le cui turpitudini (scandalo Krupp) furono svelate in seguito al grande pubblico. Di lì a Roma, per la Settimana Santa, e poi il ritorno a casa. A Livorno Amedeo si fermò soltanto qualche giorno. Il clima non gli si confaceva, e neppure il tran-tran familiare e l'assenza completa di un qualsiasi ambiente artistico potevano soddisfare il giovanotto che per sei mesi era vissuto tra artisti o intenditori d'arte e aveva contemplato capolavori. Egli andò a passare qualche mese a Firenze, poi un inverno a Roma, poi di nuovo a Firenze, dove si prese una scarlattina che fece tremare per lui la madre subito accorsa, ma guarì senza complicazioni. A tutte le spese provvedeva largamente lo zio Amédée e, quando la malattia e poi la morte disseccarono questa fonte, la famiglia continuò a fare del suo meglio per soddisfare il desiderio di Dedo di vivere lontano da Livorno e in città d'arte. A Firenze aveva superato un esame all'Accademia di Belle Arti per ottenere il permesso di eseguire copie nei musei, ma non frequentò mai nessun corso regolare, lasciando che il suo talento si sviluppasse senza costrizione alcuna. Ciò che riuscì a imparare contemplando i capolavori di Palazzo Pitti e degli Uffizi, e tutta la profondità e l'ampiezza acquistate dal suo spirito acuto in quei giorni d'osservazione e di studio si potranno forse ritrovare in alcune lettere sfuggite alla dispersione. Una serie di traslochi e, in seguito, il trasferimento a Firenze furono la causa di tale perdita. Peraltro Dedo non confidava certamente le sue idee estetiche a dei profani. A Firenze frequentò molto la Biblioteca Nazionale, tanto ricca di libri d'arte. A questo proposito ecco un aneddoto che dipinge abbastanza bene il carattere di Dedo: accusato di aver cercato di sottrarre un libro illustrato di grande valore, Dedo, indignato, risponde con una sfilza d'ingiurie al commesso che gli chiede conto del libro scomparso. Il direttore accorre al rumore e riceve la sua parte - una grossa parte! - d'insolenze. Di lì il processo. L'onorevole Pescette, avvocato, non fece fatica a dimostrare che il libro era stato sottratto dal commesso stesso addetto alla distribuzione, ma fu più difficile far passare gli insulti a un funzionario: se ne venne tuttavia a capo, senza ottenere da Dedo una sola parola di scusa. Nell'estate Dedo fu mandato, su consiglio dei medici, a Cortina d'Ampezzo, allora austriaca, oggi italiana, in piena montagna, ai piedi delle Dolomiti tanto care a Tiziano. La sua salute pareva completamente normale. La città d'arte che lo trattenne più a lungo in diverse riprese e dove lavorò più attivamente fu Venezia. Occorre essere vissuti in quell'ambiente speciale per apprezzare pienamente l'influsso che dovette esercitare su un intelletto in formazione e su un talento che stava maturando. Attorno ai tavoli del caffè Florian che, fondato da centocinquant'anni, era privo di porte e restava aperta giorno e notte, Amedeo poté conoscere e frequentare artisti e critici d'ogni paese. Poté saziare gli occhi nella contemplazione delle opere d'arte e nello spettacolo sempre mutevole della città dagli splendidi palazzi. Fu a Venezia che decise d'andare a Parigi. È veramente deplorevole che le lettere scritte a vari amici durante questo pellegrinaggio artistico siano andate perdute. Una parente, alla quale Amedeo ha spesso inviato le sue impressioni letterarie e artistiche, dice che egli le ha chiesto indietro le sue lettere per conservarle e ritrovare le sue prime impressioni. Dove e da chi quel pacchetto è stato ritrovato a Parigi? Si sarebbe certamente sorpresi dalla quantità di soggetti che, di volta in volta, hanno occupato quello spirito già indipendente e aperto a tutte le correnti del pensiero. Aveva un'ammirazione sconfinata per gli Essais di Montaigne, ma ciò non gli impediva di provare interesse per le opere di Renan, che però giudicava "incapace di sincerità". Aveva familiarità con tutti i poeti italiani. Non soltanto possedeva il "suo" Dante, cosa piuttosto inconsueta tra i suoi concittadini, ma sapeva ammirare in Pascoli e in Carducci una rinascita brillante e classica, secondo la formula che egli applicava alla propria arte. Prima di lasciare l'Italia aveva fatto la visita di leva e la commissione l'aveva giudicato troppo debole per il servizio militare. Quando fu dichiarata la guerra si sarebbe desiderato che Amedeo rientrasse in Italia, ma egli preferì restare a Parigi dove incominciava a guadagnare qualcosa. Soprattutto suo fratello Emanuele avrebbe voluto trattenerlo in Italia ma, animo molto comprensivo, non lo volle contrariare, anzi, nel limite del possibile, contribuì a facilitargli il soggiorno parigino. Nelle rare visite che Amedeo fece a Livorno riuscì a convincere i suoi che soltanto a Parigi poteva trovare le condizioni favorevoli al pieno sviluppo del suo genio. Il suo affetto per la famiglia, lungi dal diminuire in seguito alla prolungata lontananza, sembrò piuttosto diventare più profondo e più ricco di reciproca comprensione. Egli non condivideva le idee politiche del fratello, ma ammirava l'inflessibilità dei suoi principi e l'innato senso dell'onore che gli faceva accettare ogni sacrificio. Si rendeva conto che l'aiuto che si cercava di dargli rappresentava il massimo sforzo economico possibile. Durò fino al giorno in cui Amedeo fu in grado di scrivere che da quel momento in poi non avrebbe più avuto bisogno d'aiuto. Restituì addirittura l'ultimo mandato. Ben presto incominciò a parlare della sua compagna tanto dolce e amorevole, che nel novembre 1918 gli diede una figlia. Per Amedeo questa paternità fu una grande gioia. Scrisse lettere traboccanti di tenerezza e d'orgoglio. Quindi diede l'annuncio di una seconda gravidanza della sua cara Jeanne e, contemporaneamente, del progetto di portare in Italia, nella primavera 1920, dopo il parto della sua compagna, la primogenita e la madre, per farle conoscere alla famiglia. Questo desiderio di rivedere il suo paese e i suoi fu l'ultimo che poté esprimere. Firenze, 10 dicembre 1924»


A queste «note biografiche» era allegata una lettera del 13 dicembre in cui si faceva sapere a Paul Alexandre che Modigliani era sempre stato molto riservato, con la famiglia, circa la sua vita quotidiana a Parigi.

«Signore, le spedisco soltanto oggi, per raccomandata, le note biografiche che lei mi ha richiesto. Questo ritardo è dovuto alle cattive condizioni di salute di mia madre, della quale volevo la collaborazione. Ho pochissime cose da aggiungere a queste note poiché, come lei sa, non solo il mio povero fratello è vissuto quasi sempre lontano dal focolare domestico, ma anche perché le nostre occupazioni e preoccupazioni erano d'ordine completamente diverso. I legami d'affetto non si sono mai allentati, ma è mancata quell'intimità che nasce dagli sforzi e dalle speranze comuni. La mia stessa madre, tanto ardentemente attaccata al nostro caro scomparso, non era minimamente al corrente dei suoi progetti e delle sue idee. Con nostro gran dispiacere non abbiamo neanche un'opera di Amedeo. La bellissima testa di donna apache che egli aveva regalato a Emanuele fu rubata quando lo studio di Livorno fu svaligiato. Da Parigi sono stati riportati soltanto due disegni, che conserviamo gelosamente. Abbiamo anche una figura di Medusa - evidentemente ispirata a quella attribuita a Leonardo - che Amedeo dipinse su un piatto di terracotta anteriormente alla sua prima partenza, cioè quando aveva meno di sedici anni. Abbiamo con noi un ricordo assai più caro del nostro Amedeo: la sua deliziosa figliola. Questa bambina è la grande consolazione di mia madre. In essa si avvera una frase profetica pronunciata un giorno da suo padre: "Vedrai, mamma, che finirò con il darti più degli altri". Tutto l'affetto che prodighiamo a nostra madre non si può paragonare alla gioia che le dà la nostra graziosissima Giovanna, Nannoli per gli intimi. S'interessa di lei e vuole aiutarla con la pubblicazione di quest'opera su suo padre, e noi le esprimiamo tutta la nostra riconoscenza. Allego alla presente un piccolo ritratto che non rende giustizia alla sua grazia, né lascia capire abbastanza la sua straordinaria precocità».

Lettera di Margerita Modigliani a Paul Alexandre - 13 dicembre 1924